L'erba voglio

Quando decisi che mi sarei specializzata in Architettura del Paesaggio, Greta Thunberg aveva appena 5 anni, e la coscienza ecologica collettiva dei Friday for Future era ancora ben lungi dall’essere acquisita.
Di economia green e sostenibilità si parlava già, naturalmente, ma erano temi compartimentati, ad appannaggio di pochi amatori, e che si potevano ancora svincolare senza sensi di colpa: nessuno sarebbe venuto a chiederti conto del tuo disinteresse.

Per contro, il mio interesse era ancora acerbo, anche se mi ero messa in testa di educarlo. Sino a quel momento la mia esperienza con l’ambiente era stata poco significativa; avevo giocato in riva al fiume e tra gli alberi, mi ero inverdita le ginocchia sui prati, ma senza un’assiduità o diletto capaci di rappresentare una di quelle memorie identitarie che ti levano di impiccio quando devi decidere che cosa fare della tua vita.
Intuivo, molto più pragmaticamente, che quei temi avrebbero rivestito un ruolo sempre più incisivo nella società del futuro, e che specializzarmi in quell’ambito sarebbe stato un buon investimento. Ma soprattutto sentivo che includere il mondo naturale nei miei piani sarebbe stata una cosa “giusta” - pure se non si fosse rivelata la più giusta per me.

Alla fine degli anni che seguirono avrei abbandonato il percorso che conduceva all’albo dei Paesaggisti, avrei battezzato uno studio col nome di una Olivetti, e avrei comprato una casa piena di piante - ma di questo, magari, parleremo un’altra volta. Di quell’itinerario interrotto, più di tutto, ricordo l’ultima prova prima della laurea, l’esame di Botanica. E in particolare, l’allestimento dell’erbario: ecco, è di questo che vi voglio parlare.

L’erbario.
Se ci penso, avverto ancora quel senso di repulsione febbrile che ha eguali solo nell’infanzia, quando ti ritrovi costretto nella stasi senza stimoli di un divano altrui, il tempo oscenamente immobile, e l’inconfondibile solitudine accerchiata dei bambini che non hanno accesso alle chiacchiere degli adulti.
L’erbario: odiai ogni singolo istante di quell’attività.

Era febbraio, la campagna era umida e cimiteriale, di piante da raccogliere non ce n’era neanche l’ombra. Mi aggiravo come una zingara fra le scarpate infangate e le rogge punteggiate da chiazze di neve testarda e morente, in cerca di esemplari da estirpare e catalogare. Dopo la raccolta e la pulizia, era la volta dell’essicazione, la fase più delicata perché occorre evitare la formazione di muffe e marcescenze.
Non mi ero mai presa cura di un animale domestico o di una pianta viva, e all’improvviso dovevo assistere quotidianamente trenta piante morte, cambiando ogni giorno il loro sudario di fogli di giornale.
Spillavo quelle piantine scolorite e bidimensionali sugli album Fabriano che sino a pochi anni prima consumavo a vista d’occhio nelle ore di disegno, chiedendomi se quello che stavo facendo avesse senso, se non stessi solo sprecando il mio tempo, e se non fossi in procinto di scoprire che il procedimento era completamente sbagliato, e che presto avrei dovuto ricominciare tutto daccapo. L’insofferenza permeava ogni fibra del mio corpo.

Il giorno dell’esame mi sedetti alla cattedra di una facoltà che non era la mia, davanti a un’insegnante che incontravo per la prima volta (un saluto alla penosa organizzazione delle lezioni, ciao mitica) con la sublime certezza che tutta quella fatica sarebbe stata vana.
E invece.

E invece quello che successe fu che il mio erbario,
l’erbario che avevo tanto odiato,
l’erbaio che avevo trafitto di spilli con la perversione di una sacerdotessa vodoo,
quell’erbario
fosse uno dei migliori che la docente avesse ricevuto. Al punto da chiedermi se potessi lasciarglielo in dono per la sua collezione privata.

Naturalmente acconsentii.
Naturalmente ero sotto choc.
Naturalmente ero contenta del mio bel voto. Eppure non mi sentivo affatto gratificata dall’evidenza che il lavoro che avevo tanto odiato fare avesse sortito un così roseo risultato. Mi sembrava, a dirla tutta, una beffa.

Ma come? Di tutte le attività che mi piace fare, fra tutte le cose da cui traggo diletto e ispirazione, e nelle quali non eccello… è proprio la più odiosa di tutte, quella che si rivela essere la più performante? Non c’è davvero alcun potere alchemico, allora, nella passione che ci mettiamo? Nessuna chance di influenzare il risultato finale, se affrontiamo il processo con positività o pessimismo? Che fine fanno il godimento e l’insofferenza che sperimentiamo nelle nostre attività?

Mi ritrovo intenta a rispolverare queste domande ogni qual volta l’esito di una mia azione si dimostri uguale e contrario allo spirito con cui è stato raggiunto. Dopotutto, non c’è forse in noi l’idea-rifugio che fare ciò che si detesta danneggi, oltre che noi, anche la cosa stessa? E che il compimento di un talento e il suo godimento coincidano?

Mi scopro ogni giorno insospettabilmente brava a fare cose che non muovono in me alcuna pulsione, e tuttavia questi meriti accidentali, come banconote rinvenute nelle tasche di un jeans che non indosso da tempo, non compensano affatto gli insuccessi o gli esiti mediocri delle cose che faccio con trasporto e curiosità. Non contribuiscono all’estimo della mia vanità. Non solo non so che farmene, ma sono persino infastidita dalla loro presenza: sono la testimonianza di un caos che non so accettare, l’idea che ciò che siamo sfugga a ciò che vogliamo essere.

L’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del Re. Non è solo una frase per bambini capricciosi.
Se la cercassimo, l’erba voglio, non la troveremmo in nessuna scarpata infangata, in nessuna serra ligure, nemmeno tra le pregiate sementi alla borsa dei fiori di Amsterdam. Ciò che vogliamo non sempre può essere coltivato, o colto.

L’erbario della nostra vita, allora, non può che comporsi delle piante fortuitamente incontrate lungo il nostro cammino, della nostra rabbia autoctona, della gentilezza che ci hanno regalato, della pazienza che abbiamo indefessamente coltivato, delle ansie che infestano il giardino della nostra mente, e dei talenti che hanno trovato le migliori condizioni di luce e umidità per la loro crescita, a discapito di ogni previsione.

Valentina AdrianoCommenta